Il filo conduttore di questo saggio è di poter affermare che se suprema attività
umana è fare scienza, allora diventa doveroso impedire alla scienza d’essere
tanto brava da rendere inutile all’uomo di fare scienza.
Perché dico questo? Perché svolgendo il lavoro di criminologo clinico mi accorgo
che ormai in Italia quando accade un crimine da Roma in sù, arrivano i Reparti
investigativi scientifici e, come accade nelle fiction, pretendono di risolvere
nella realtà tutto con la “scienza”. Analizzano le tracce biologiche, il capello, la zanzara
depressa, la formica incinta
e così via, portando ogni reperto nel laboratorio scientifico e poi sciorinano
una serie di teorie che pendono sempre a favore dell'accusa e che non mettono in
modo ferreo l'indagine (e il cittadino) al riparo dall'errore scientifico e
giudiziario.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: dal delitto di Cogne al fenomeno Unabomber,
dal delitto di Garlasco a quello di Perugia e così via. Errori metodologici,
scenari di fantasia, metafore suggestive alimentano indagini spettacolari dove i
mass-media attingono come api sul miele. Alla fine, in nome della “scienza”
accade sempre più spesso che il ragionamento d’indagine non riesce ad
allontanarsi dall’abitudine e dall’esperienza, lasciando a desiderare il
ragionamento per problemi che sfrutta l’intelligenza.
Ecco quindi che la filosofia delle scienze può aiutarci a capire il bandolo
della matassa: che cos’è scientifico? Qual è la verità? Meglio un colpevole fuori dal
carcere col dubbio che sia innocente oppure un innocente dentro col dubbio che sia colpevole? Per rispondere a questi interrogativi svilupperò il tema per piccoli paragrafi.
§1. L’illusione di sapere tra scienza e scientismo
Scrive il filosofo e medico Bencivenga:
“L’intera comunità scientifica è
stata periodicamente illusa da analogie inadeguate, succube di personaggi
autoritari o tradizioni ancestrali, accecata da pregiudizi, dall’ambizione o
dalla fretta, ingannata da ragionamenti fallaci. Si è così passato da uno
scientismo all’antiscientismo”.
Di Trocchio, nella sua opera “Le bugie della scienza”,
scrive: “Da qualche tempo anche imbrogliare è diventata una scienza.
Proporrei di chiamarla imbrogliotica o meglio, come suggerisce Tullio De Mauro,
imbroglionica. Si tratta di una disciplina d’avanguardia che non costituisce
materia e d’insegnamento, ma fa parte del conoscere degli scienziati. Essa non
consiste nel rendere credibile l’incredibile e l’impossibile alla gente comune,
come fanno astrologi, maghi e fattucchieri, ma nel fare la stessa cosa con i
colleghi. (…) Imbrogliare gli scienziati è più difficile perché bisogna
conoscere la materia ed i dettagli delle tecniche sperimentali”.
Di Trocchiospiega che non solo
taluni premi Nobel contemporanei hanno imbrogliato, ma anche scienziati come
Galilei e Newton. Solo un buon fisico come Blondlot, per esempio, poteva rendere
credibili gli inesistenti raggi N e solo un autorevole psicologo come sir Cyril
Burt poteva convincere i suoi colleghi di aver dimostrato sperimentalmente che
l'intelligenza e la stupidità si ereditano dai propri genitori. Tuttavia, Di
Trocchio, indica una differenza: mentre i grandi scienziati, che
appartengono alla storia, arrivano ad imbrogliare con le loro teorie, ma
salvaguardano l’interesse della scienza, oggi invece la tendenza è d’imbrogliare
per soldi e per fare carriera. L'imbroglionica insegna, a chi non è scienziato,
a camuffarsi da vero scienziato di successo ed emergere nella massa degli oltre
3 milioni di ricercatori che oggi affollano i laboratori.
L'imbroglionica oggi, io dico, spopola nel campo della ricerca e delle indagini
investigative e peritali. Non solo ci sono circoli di amici (da non confondere
col famoso Circolo di Vienna), di periti e consulenti forensi, che davanti al
giudice fingono di non conoscersi e fanno le perizie e consulenze nel gioco
delle parti, ma ci sono professionisti che si improvvisano scienziati senza aver
mai letto un libro di scienza. A parte la perita casalinga con la quinta
elementare che ormai è un classico, ma c'è anche chi, con la sola laurea in pedagogia (col tutto il
rispetto per i laureati in pedagogia!) su un biglietto di sei parole (ossia,
"Tua moglie ti fa le corna"), scritto sia in stampatello maiuscolo e sia con la
macchina da scrivere, è stata capace di fare tre perizie: una, sulla macchina da
scrivere; due, sulla scrittura; tre, sulla capacità d'intendere e volere del
probabile autore. Sorge il dubbio su come mai questa "scienziata" del crimine si
sia fermata a tre e non abbia eseguito la quarta perizia, per analizzare la
carta; la quinta, per analizzare gli inchiostri; la sesta, per riassumere il
senso delle cinque perizie. Un professorone di chimica col vizio di occuparsi di
grafologia, è stato nominato CT del Pm in un processo penale, si trattava del
sospetto di firme apposte col pantoigrafo, lui in esame esordisce dicendo:
"Premetto che non conosco il pantografo, però...." Ma se non conosci una cosa,
perché taci?
Come si dice nel campo scientifico? Ciò di cui non si conosce, occorre
tacere!
Da Popper
in poi, noi sappiamo, che l’unica cosa veramente certa che si possa dire a
proposito di una teoria scientifica è che essa prima o poi sarà dimostrata
falsa.
§1.1. Lo scienziato
come impostore: errore e inganno
Charles Babbage nel 1830 cercò di dare una risposta al
perché gli scienziati, che consideriamo i garanti della verità, siano indotti ad
imbrogliare. Si è invocata la teoria delle “mele marce”, oppure la spiegazione
che anche gli scienziati sono uomini come gli altri, quindi non immuni dal
mentire. Di Trocchio
si è posto il problema se per lo scienziato il mentire non sia qualcosa
d’intrinseco alla scienza. Egli è giunto alla conclusione che spiegare il perché
uno scienziato imbrogli è di per sé un beneficio per la scienza, perché
s’inserisce un criterio per distinguere una teoria o una scoperta vera da una
teoria o scoperta falsa.
Da qui la domanda: se sono proprio loro a mentire, i più
grandi della scienza e lo fanno in nome della scienza, allora vuol dire che non
si può fare a meno di mentire nella scienza? Ossia, che non c’è altro modo di
convincere il mondo della validità delle loro teorie e scoperte se non
imbrogliando? La risposta è questa: lo scienziato enuncia delle teorie a quella
che ritiene una realtà profonda d’alcuni aspetti del mondo e della natura e
cerca di convincerci della validità e verità di tali teorie con degli
esperimenti che ci “mostrino” quanto affermato.
Tuttavia anche lo scienziato sa bene, almeno dal 1934 in
poi, che non gli sarà mai possibile dimostrare in modo conclusivo, magari con
l’appello agli esperimenti, la verità di una qualsiasi delle sue teorie sulla
realtà profonda del mondo. Si deve a Popper questa consapevolezza, avendo
chiarito definitivamente sul piano epistemologico che ciò che si può dimostrare
realmente è solo che una cosa è falsa; mentre è impossibile dimostrare
conclusivamente che una cosa è vera. Questo vuol dire, che tutte le teorie
scientifiche che riteniamo vere sono considerate tali non perché la loro verità
sia stata realmente dimostrata, ma solo perché gli scienziati che le hanno
enunciate sono stati capaci di convincere i loro colleghi e noi stessi.
Questo però sembra voler dire, che non esistono verità, il
che a sua volta ci porterebbe a dedurre che non è mai possibile distinguere una
teoria o una scoperta vera da una teoria o scoperta falsa; o decidere se uno
scienziato è tale o è solo un impostore. E’ evidente, che non è così. Per quanto
oggi sia difficile trovare un criterio capace di discriminare una teoria vera da
una falsa è possibile però utilizzare dei criteri empirici, ma efficaci,
desumibili da due elementi fondamentali: il metodo (anch’esso oggi molto
discusso) e la metodologia del metodo.
Potremmo spingerci ad affermare,
che il metodo potrebbe essere l’unico criterio utile per distinguere la validità
o meno di uno scienziato e della sua teoria o scoperta.
Già con Galilei si è pensato
bene, che tutti i successi della scienza moderna sono strettamente connessi con
il metodo ipotetico deduttivo elaborato ed utilizzato dallo stesso, e poi in
parte ripreso dagli altri scienziati. Secondo Galilei la prima cosa che uno
scienziato deve fare è quella di osservare il fenomeno che intende spiegare.
Poiché poi è difficile trattare tutte le cose osservate, egli deve ridurre le
osservazioni a delle affermazioni semplici, definite più correttamente,
proposizioni. Dopo quest’analisi delle relazioni matematiche essenziali si deve
elaborare un’ipotesi da cui si possono dedurre una serie di conseguenze. Queste
possono poi essere sottoposte alla prova dell’esperimento per accertare se sono
o non confermate nella realtà (dall’esperienza empirica, direbbe Popper). Alla
fine l’ipotesi risulta vera o falsa.
Questo metodo differisce da quello elaborato da
Cartesio, che si articola in 4 fasi:
1) Evidenza:
utilizzando il proprio intuito e l’intelligenza s'ammettono come vere solo le idee che si presentano
in modo evidente, distinto e chiaro.
2) Analisi: si suddivide il problema principale in tanti problemi minori
(momento deduttivo).
3) Sintesi: si ordinano i pensieri cominciando da quelli più
semplici per arrivare a quelli più complessi.
4) Controllo: si esegue la revisione generale per assicurarsi di non aver
omesso nulla.
Secondo Cartesio tutte le cose vanno dubitate finché non si avranno fondamenti
più certi nelle scienze; l’unica verità di cui non devo dubitare perché certa è
il “Cogito ergo sum”: “Penso quindi sono”. (Posso dubitare di tutto tranne del
fatto che sto dubitando e se ho la certezza che dubito vuol dire che penso, se
penso allora sono).
A noi è stato insegnato a
scuola, che tutte le scoperte scientifiche derivano dall’uso del metodo di
Galilei. Questo però è vero solo in parte, perché in realtà non è mai esistito
un metodo accettato da tutti, piuttosto, questo metodo ha affermato
l’atteggiamento dello spirito dello scienziato; ed
è questo atteggiamento dello spirito (non il
metodo sperimentale di per se stesso) che è stato accettato dagli scienziati,
fino ai nostri giorni.
In rapporto a ciò, è stato fatto osservare (M. Pera, 2000)
che gli scienziati non è vero che poi abbiano fino in fondo rispettato quest’atteggiamento
dello spirito, nei confronti della scoperta scientifica e delle teorie
scientifiche. Infatti,
se Galilei avesse
usato le regole metodologiche più raccomandate del suo tempo, non avremmo avuto
la scienza moderna.
Feyerabend ha detto: “Non esiste alcuna regola, per
quanto plausibile e per quanto saldamente fondata nell’epistemologia, che non
sia stata violata in questa o quell’occasione”. Feyerabend sostiene che
queste violazioni sono necessarie, oltre che utili, affinché la scienza possa
progredire: mischiando regole metodologiche e trasgressioni a queste regole,
trasgressioni che egli definisce errori.
La scienza, dunque, nasce non tanto dal metodo, ma anche o soprattutto dagli
errori, ossia dalle trasgressioni a questo metodo.
Occorre osservare, che la
parola “metodo” fu imposta da Platone e poi da Aristotele nel senso di “ricerca”
e di strategia dell’investigazione; ma fu anche usata da Plutarco
come sinonimo di “artificio”, “stratagemma”, “frode”.
Ciò farebbe supporre che nella scienza prevalga il falso e
non il vero, la truffa e non la verità. René Thom, fondatore della teoria delle
catastrofi,
ha scritto che le teorie vere sono tali perché generate dal falso, per questo
motivo: la meccanica di Galilei,
la teoria newtoniana, la teoria della relatività di Einstein,
sono tutte teorie vere generate dal falso. Questo significa, per concludere su questo punto, che tutte
le teorie, che sono considerate vere per un certo periodo storico, hanno origine
da teorie precedenti che sono ritenute false o corrette e che esse stesse, a
loro volta, verranno prima o poi ritenute false o corrette da altre teorie.
All’inizio ed alla fine d’ogni teoria scientifica c’è, dunque, il falso. E’
questa falsità, generatrice di verità, che costituisce l’essenza stessa della
scientificità.
§1.2. La verità come
problema gnoseologico
Nelle scienze dello spirito si è discusso molto del problema
della verità e ci si è posti la domanda: che
cos’è la verità? A lungo si è ritenuto che la verità stesse nell’adeguamento del
soggetto che conosce, all’oggetto conosciuto. Dietro questa concezione vi era la
convinzione che la ragione umana fosse in grado di conoscere l’oggetto, la
realtà in sé delle cose, la loro intima essenza. Per questo motivo la conoscenza
era strettamente connessa alla metafisica, vale a dire, al sapere che scopriva
tale struttura della realtà. Nei casi in cui si è affermata una verità, questa
non poteva che riguardare le cose così come si presentavano a noi, non come sono
in se stesse.
Nella domanda di Kant “che cosa posso sapere?” vi era
una impostazione, che invece di mettere l’accento sul primato dell’oggetto
conosciuto, riteneva essenziale mettersi dal punto di vista del soggetto che
conosce e domandarsi possibilità e limiti della conoscenza.
Il
problema della
conoscenza si poneva
nella domanda kantiana non solo come problema di che cosa, ma anche di
come all’uomo era possibile sapere. Ci si chiede, vale a dire, quali sono le
fonti a cui il soggetto attinge per conseguire delle conoscenze vere o in ogni
caso attendibili (l’esperienza sensibile? Le idee della ragione?) e quali,
infine, sono i fondamenti del ragionamento corretto?
Le domande riguardo alla conoscenza, sul piano gnoseologico,
sono note:
vi è una sola Verità o
ve ne sono tante? Ognuno ha la sua personale verità oppure è possibile
trovare un fondamento comune di verità? E se vi è la verità,
possiamo realmente conoscerla oppure possiamo solamente cercarla senza mai poter
dire con certezza d’averla trovata?
Diremo, allora: la
verità di qualsiasi affermazione dipende dalla sua corrispondenza con uno
stato di cose esistenti.
La proposizione in perizia “tutti
i corvi sono neri” è
vera se, e solo se, effettivamente, tutti i corvi sono neri. Sarà
sufficiente che un solo corvo non lo sia e la proposizione non è più vera.
Del pari, la proposizione “Tizio è capace
d’intendere e volere” è
vera se e solo se, effettivamente, tutte le condizioni che
indicano il significato d’intendere e volere lo confermano. Sarà sufficiente che
un solo elemento di questi non lo sia e la proposizione non è più vera.
Nella filosofia dello spirito ci si è chiesti: se tutto
quello che pensiamo è un fatto mentale, se, vale a dire, ogni nostra idea -
impressione o concetto - è solo nella mente, chi può garantirci che essa
corrisponda effettivamente alla cosa che è pensata? E, ancora: qual è la natura
della verità? E’ il frutto di una rivelazione divina oppure è il prodotto della
mente umana? In quest’ultimo caso, fin dove può arrivare la nostra possibilità
di conoscere la verità? Non è forse necessario conoscere preliminarmente quali
sono i limiti della nostra capacità conoscitiva?
Socrate
affermava che l’impegno del vero filosofo era di smascherare ogni presunzione
di verità, ogni acquisizione superficiale del sapere, ogni atteggiamento
acritico e dogmatico. La sua pratica filosofica fondamentale è la confutazione
del sapere corrente, in altre parole la dimostrazione che ciò che si ritiene
vero si basa su una serie d’opinioni e affermazioni che, opportunamente
analizzate, si rivelano palesemente in contraddizione fra loro e non fondate.
Non l’affermazione presuntuosa della propria competenza e del proprio sapere, ma
il riconoscimento della propria ignoranza, in altre parole
“il sapere di non sapere”,
costituisce il passaggio obbligato per ogni reale acquisizione di verità. Colui
che presume di sapere, dice Socrate, non assumerà un atteggiamento di ricerca.
La ricerca della verità è caratteristica dell’uomo e della condizione umana.
Il compito della ricerca ancorata a dei criteri di
scientificità non è quello di rendere gli investigatori o i giudici più
sapienti (o sapientissimi, come lo erano i Sofisti criticati da
Socrate), ma più consapevoli di sé e dei limiti del proprio sapere. E’
necessario imparare a ragionare scientificamente, usando la logica e sapendo
scegliere tra metodologia del metodo e metodologia del risultato della ricerca
peritale.
Occorre, dunque, insegnare a
ragionare, in altre
parole, abituare chi cerca la “verità” a
riflettere per raggiungere autonomamente le proprie convinzioni e per compiere
le scelte più adeguate in rapporto al problema iniziale.
§2. Metodo induttivo e
deduttivo dei principi peritali
Il metodo induttivo si basa sull’osservazione dei
fenomeni dell’esperienza sensibile e sulla generalizzazione, in altre parole
sull’individuazione di quanto ci sia in comune nei casi singoli osservati:
osservando le diverse specie di pesci e notando che ciascuno ha le squame
possiamo concludere che tutti i pesci hanno le squame.
L’induzione
procura le premesse universali
di ciascuna scienza; ma, chi ci garantisce che queste premesse ricavate
dall’osservazione e dall’induzione abbiano una validità universale? Non può
farlo la stessa induzione, perché si limita solo ai casi osservati e registrati,
ma non è in grado di esaudire tutti i casi possibili, dai quali ricavare
conclusioni assolutamente certe. Il problema delle premesse allora rimarrebbe aperto se
Aristotele per primo non si fosse richiamato ad un’intuizione intellettuale (o
Noùs) che ci permette di cogliere i principi di ogni scienza. In altri
termini, Aristotele ipotizza l’esistenza di una facoltà razionale la quale -
senza dimostrazione - riesce a cogliere con piena evidenza le premesse che
appartengono a quella scienza e senza le quali essa perderebbe la sua identità.
Le scienze muovono, dunque, da concetti e
premesse generali, che possono essere solo intuiti e costituiscono la base di
partenza dei loro procedimenti dimostrativi.
La soluzione suggerita da Aristotele che cerca di conciliare
l’esigenza di coerenza e rigore dell’argomentazione scientifica (a partire da
premesse vere) con quella della sua concretezza, resta, tuttavia, una questione
ancora aperta.
§3. Il modello di
teorizzazione causale
Il modello causale tende ad individuare fino a che punto la
variazione di una variabile causi la variazione di un’altra. In realtà questo è
risultato molto difficile, tanto che nelle scienze sociali si parla sempre meno
di causa e sempre più di correlazione tra variabili diverse.
In ogni caso, nelle scienze criminali
affermiamo, che,
a)
esiste una relazione tra X e Y;
b)
la relazione è asimmetrica, così che una variazione di X ha come
risultato una variazione di Y, e non viceversa;
c)
una variazione di X ha come risultato una variazione di Y quali che
siano le influenze d’altri fattori.
Dato che nessuna causa può precedere l’effetto, uno dei
metodi più sicuri per determinare quale fattore sia la causa e quale l’effetto,
è la sequenza temporale (ciò che accade prima è considerato la causa, ciò che
accade dopo l’effetto). Riteniamo utile parlare di causalità in termini di
condizioni necessarie e sufficienti.
·
X è causa necessaria al
verificarsi dell’effetto Y se Y non accade mai, a meno che non accada (o sia già
accaduto) X.
·
X è causa sufficiente di Y,
se Y si verifica tutte le volte che si verifica X.
Ma esistono altre tre combinazioni:
·
causa necessaria ma non
sufficiente:
in questo caso X deve
accadere, ma non basta, è necessario che compaia un altro fattore, prima che
avvenga Y (es. fumo, smog e cancro). In questo caso si può parlare dei due
fattori come cause parziali;
·
causa sufficiente ma non
necessaria:
quando due o più fattori, ad
esempio X e Z, sono causa alternativa dello stesso fenomeno Y, ma non sono
causa parziale, perché anche uno solo dei due fattori è sufficiente a
causare Y (ad es. nel caso risulti che il fumo e lo smog sono sufficienti, anche
da soli, a provocare il cancro);
·
causa necessaria e sufficiente:
questa è la forma più
forte di relazionale causale, Y non accadrà mai senza che accada X, ed accadrà
sempre quando accade Y. In questo caso non ci sono cause alternative, X è la
causa completa, l’unica causa.
L’ultimo aspetto importante da sapere è la
causazione reciproca.
Abbiamo visto come di solito
si parla di causa nei rapporti asimmetrici, ma è possibile individuare
una causa anche nelle relazioni simmetriche, in cui X è causa di Y e
contemporaneamente causa ed effetto.
Ma la causa può non essere diretta tra X e Y e passare
attraverso una serie d’altri fattori, intermedi, che rendono il processo ancora
più complicato.
Conditio sine qua non
La sequenza temporale è spesso il modo certo per
stabilire quale fattore sia la causa (il prima) e quale l’effetto (il dopo).
A complicare però le cose sono tre
combinazioni di necessità e sufficienza.
·
Prima combinazione:
X è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza di Y.
In questo caso, X deve accadere prima che accada Y, ma X da solo non è
sufficiente a causare la comparsa di Y. Al contrario, deve esistere qualche
altro fattore che compare sommato a X prima che compaia in Y. Supponiamo, per
esempio, che la ricerca dimostri che soltanto i fumatori si ammalano di cancro
al polmone e che i non fumatori non si ammaleranno mai. Ciò dimostrerebbe che il
fumo X è condizione necessaria del cancro Y al polmone. Ma supponiamo che
ulteriori ricerche svelino che tale malattia non coinvolge tutti i fumatori. Di
fatto, solo i fumatori che vivono anche in un’area a forte inquinamento
atmosferico Z si ammaleranno di cancro. Da solo il fumo X non può provocare il
cancro Y ma in combinazione con lo smog Z (che è anch’esso una causa necessaria
ma insufficiente) può portare al cancro. Insieme i fattori del fumo X e dello
smog Z sono sufficienti a causare la malattia, ma singolarmente sono
insufficienti, per quanto sia necessario.
·
Seconda combinazione:
un fattore può essere una condizione
sufficiente ma non necessaria.
Modifichiamo il nostro esempio affermando due cose: a) che il fumo X è
sufficiente a causare da solo (senza la compresenza d’altri fattori) il cancro
al polmone; b) che anche lo smog Z è sufficiente a causare da solo (senza la
compresenza d’altri fattori) il cancro al polmone. In questi casi nessuno dei
due fattori (fumo o smog) è di per sé necessario perché si manifesti il cancro.
Più specificatamente il fumo non è più necessario perché il cancro si
manifesterà anche in sua assenza (se è presente lo smog); lo smog non sarà più
necessario perché il cancro si manifesterà anche in sua assenza (se è presente
il fumo). In ogni caso, uno dei due deve essere presente. Nel caso di condizioni
non sufficienti ma necessarie, possiamo affermare che X e Z sono cause
alternative di Y ma non cause parziali, poiché ciascun fattore è sufficiente a
causare Y da solo.
·
Terza combinazione:
la causa X è ad un tempo necessaria e
sufficiente per il verificarsi dell’effetto Y.
Questa è la forma più ideale di relazione causale. In questo caso Y non
accadrà mai senza che accada X ed accadrà sempre quando accade X. Non ci sono
altre possibilità: X è la causa completa ed unica. Poniamo un esempio: se il
fumo costituisse una condizione necessaria e sufficiente del cancro, allora
tutti i fumatori si ammalerebbero di cancro e nessun non fumatore si ammalerebbe
mai. Dato che X è necessario, non sussistono cause alternative e dato che X è
anche sufficiente, è la causa completa e non una causa parziale. Una relazione
necessaria e sufficiente rappresenta il più puro caso di causalità. E’ un
esempio d’unicausalità, perché X è la sola causa di Y e Y non si manifesterà mai
senza che sia presente X.
L’idea che la scienza possa, e debba, essere gestita in
accordo a leggi fisse e universali è tanto irrealistica quanto perniciosa. E’
irrealistica in quanto considera in modo troppo semplicistico le doti dell’uomo
e le circostanze che ne incoraggiano, o causano, lo sviluppo. Ed è perniciosa in
quanto un tentativo di imporre le regole è destinato ad aumentare le nostre
qualificazioni professionali a scapito della nostra umanità. Tale idea è inoltre
dannosa per la scienza, in quanto trascura le complesse condizioni fisiche e
storiche che influiscono sul mutamento scientifico. Essa rende la nostra scienza
meno adattabile e più dogmatica: ogni regola metodologica è associata ad assunti
cosmologici, cosicché usando la regola diamo per scontato che gli assunti siano
giusti.
§4. Sul metodo e contro il metodo
Nel testo “Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza”, Karl Raimund Popper
(Vienna, 1902 - Londra, 1994) ha scritto: “Tutta la mia concezione del metodo
scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste in tre passi:
inciampiamo in un problema; tentiamo di risolverlo; impariamo dai nostri sbagli.
O per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche.
Afferma Popper: “Noi non sappiamo niente. Questo è il primo punto. Di
conseguenza, dobbiamo essere molto modesti, questo è il secondo punto. Che non
diciamo di sapere, quando non sappiamo, questo è il terzo punto. Questa è
all’incirca la concezione che io vorrei volentieri rendere popolare. Ma non è
che ci siano troppe speranze”.
Il concetto popperiano di falsificabilità (che definisce appunto
un criterio di scientificità) si oppone nettamente a quello neopositivista di
verificabilità, inteso a definire un criterio di senso.
Il criterio di falsificabilità afferma che una teoria, per essere controllabile,
e perciò scientifica, deve essere “falsificabile”: in termini logici, dalle sue
premesse di base devono poter essere deducibili le condizioni di almeno un
esperimento che la possa dimostrare integralmente falsa alla prova dei fatti,
secondo il procedimento logico del modus tollens (in base a cui, se da A
si deduce B, se B è falso, è falso anche A). Se una teoria non possiede questa
proprietà, è impossibile controllare la validità del suo contenuto informativo
relativamente alla realtà che essa presume di descrivere.
Paul K. Feyerabend
(Vienna, 1924 - Ginevra, 1994), invece, afferma che qualsiasi tentativo di
stabilire un metodo della scienza basato su norme rigide è destinato al
fallimento, poiché non esiste alcuna norma che non sia stata intenzionalmente
violata nel corso della storia della scienza. E, anzi, la stessa esperienza
storica dimostra che il progresso scientifico spesso si attua mettendo tra
parentesi le regole e le procedure stabilite e accettate dalla comunità
scientifica, attraverso l'uso disinvolto di quelle che vengono a volte chiamate
"ipotesi ad hoc".
Afferma Feyerabend: “Il falsificazionismo pretende di distinguere una teoria
controllabile da una incontrollabile, dicendo che una teoria controllabile può
essere confutata dall'esperienza; tuttavia nulla vieta di tentare di confutare
in maniera metodologicamente coerente la confutazione di una teoria; allo
stesso modo, una teoria di principio incontrollabile può essere criticata
adottando prospettive di metodo ad essa opposte o contrarie”.
Mentre la tradizione razionalistica diffonde un'immagine monolitica ed atemporale della scienza, Feyerabend pone l'accento sulla
dimensione storica, dinamica e pluralistica del sapere scientifico,
giungendo a una concezione del procedere scientifico, nota col termine
di anarchismo metodologico. Esso consiste: la negazione dell'esistenza
nella scienza di un metodo universalmente valido e la tesi che nella pratica scientifica
"qualsiasi cosa va bene", nel senso che il procedere scientifico può
anche utilizzare le pratiche più diverse o anche in evidente
contrasto con i canoni metodologici maggiormente accreditati. In questo modo,
anche il distacco tra sapere scientifico e altre forme di conoscenza della
realtà (ad esempio, il mito) perde di rigidità. La
scienza quale si è venuta a costituire negli ultimi secoli, invece che come
valore indiscutibile e un destino inevitabile, finisce allora per presentarsi
come il risultato di una particolare epoca storica, inevitabilmente influenzata
da componenti storico-culturali, sociali e perfino ideologiche. La scienza può
addirittura trasformarsi un disvalore nella misura in cui pretende di
soppiantare e di prevaricare ogni altro tipo di discorso.
§5.
L'era ipertecnologica, la scienza ci rende cinici
Viviamo in un’epoca ipertecnologica e frenetica, dove è richiesto
sempre meno lo sforzo di esercitare il pensiero critico. Siamo tutti sedotti dal
fascino delle tecnologie, condizionati dalle culture del sospetto, del dominio,
del controllo, del possesso, dell’insicurezza, con tutte le complicazioni,
subculturali o patologiche, che da ciò derivano: difficoltà a immaginare il futuro, vecchie e nuove fobie, ansia, stress, paranoia, vuoto di sé,
stupidità divagante.
Intere generazioni si sono ormai abituate a ricorrere all’uso del
telecomando, sempre a portata di mano, dove lo sforzo più critico del pensiero è
quello d’indovinare qual è il bottone giusto da pigiare. Giovani, il cui
linguaggio, influenzato dai mass media, dai video games e dalle crisi
interpersonali, è sempre più sintetico, freddo, sganciato dalla realtà reale
e persino dalla semantica e dalla sintassi. La semiotica pone questo inquietante interrogativo: i giovani, nel
futuro prossimo, riusciranno a pensare in modo autonomo per più di 30 secondi,
l’equivalente della durata di uno spot? Afferma il prof. Francesco Sidoti:
«L’investigazione viene svolta da un soggetto naturalmente ignorante,
fallibile, spesso fazioso e superstizioso, sempre sovrastato da un’eccedenza di
percezione, in un contesto storico caratterizzato da una sovrabbondanza
incomparabile di stimoli, d'informazioni, di delitti».
Condivido questa affermazione di
Sidoti, per questo, nelle scienze criminali, mi preoccupano molto i facili
ricorsi all’uso delle tecnologie più sofisticate e moderne. L’investigazione e
la criminologia, nella loro rispettiva metodologia dell’indagine, devono
preoccuparsi, più che a scoprire la “verità”, ad evitare l’errore, più che a
collezionare certezze, a nutrire dubbi. (Dubium sapientiae initium,
“La saggezza inizia col dubbio” affermava Cartesio).
Più che a dare risposte giuste, ci si deve preoccupare di evitare quelle
sbagliate. Più che a rappresentare l’accusa e guardare solo agli elementi di
colpevolezza, si deve agire per difendere la legalità. Più che a presumere la
colpevolezza delle persone, si deve presumere l’innocenza. Più che pretendere
dagli altri il rispetto della legalità, occorre, anzitutto, rispettarla noi.
Se è condivisibile il pensiero di K. Popper che afferma:
«Nessun uomo dovrebbe essere considerato colto, se non ha interesse per la
scienza»; allo stesso tempo, è condivisibile quello di Kant,
quando invita ogni persona ad usare la propria intelligenza,
anziché affidarsi all’autorità di un altro e considerare la scienza come una
sfida; in altre parole, Kant invita a non accettare, come guida, neppure
l’esperto scientifico, addirittura neppure la stessa scienza.
E’ questa la
doppiezza di pensiero e di guida, che intendo suggerire con questo saggio, pur
rimandando al mio testo "Senso e conoscenza nelle scienze criminali", per un
approfondimento. Ha
ragione anche il filosofo Bencivenga,
quando afferma:
“E’ meglio rimanere
fuori al freddo, nella confusione, in mezzo a problemi aperti e difficoltà senza
soluzione, per quanto frustrante la cosa possa essere. Chi preferisce a tutto
questo la sicurezza di una risposta preconfezionata farà spesso la fine del
chimico Ernest Stahl”.
In Inghilterra e negli USA la polizia è molto informatizzata:
mediante appositi software è in grado di tenere sotto controllo le aree del
territorio a rischio criminalità. Con un dato programma (DUF) tiene conto della
relativa vicinanza, studia dove i delinquenti tendono a commettere i crimini
rispetto alle loro residenze e paragona questi dati ai fattori demografici, a
scopo preventivo o di repressione. In pratica il programma stila una casistica
sulla base dei crimini commessi in una determinata area geografica. Queste casistiche usufruiscono del supporto d’altri programmi, per
esempio, quelli d’ottimizzazione geografica criminale (CGT), che aiutano gli
analisti del crimine a calcolare relazioni possibili tra i dati relativi al
luogo di residenza e di spostamenti abituali dei criminali e il luogo dove hanno
compiuto dei crimini.
Il programma CGT
si basa sul principio che esiste un rapporto di distanza fra le residenze dei
delinquenti abituali e la micro-realtà dove hanno scelto di delinquere. Questi
delinquenti, come tutti, conducono le loro attività in modo abituale,
all'interno di una micro-realtà geografica che conoscono bene. Il programma CGT
parte dal presupposto che chi delinque non lo fa nel luogo dove risiede, ma dove
opera come criminale.
Un analista del crimine, usando uno di questi programmi, traccia
una zona di caccia, individua la micro-realtà dove i delinquenti agiscono in
modo abituale o incontrano le loro potenziali vittime. Ad ogni punto,
all'interno di questa zona, il programma assegna una probabilità d’essere quella
la residenza del delinquente.
Accanto a ciò, la polizia americana, per prima, ha ideato uno
studio basato sul principio di rendere visibile su una mappa tutti i crimini
commessi nel territorio rappresentato. Questa tecnica è definita “mapping
crime” e si avvale di software particolari.
Il programma raccoglie dei primi dati, detti layer: le mappe del
territorio, rendendo visibili edifici, strade, parchi, ecc. Il primo layer è la
mappa che visualizza la strada, poi l’edificio e il numero civico. Un secondo
layer, dettato dal sistema satellitare Geographical Information System (GIS),
focalizza un particolare e poi il dettaglio sulla mappa digitale (nell’edificio
s’individua il singolo appartamento, negozio, scuola o altro).
Oggi, così come per fare la spesa non è più necessario recarsi
fisicamente al supermercato, perché è sufficiente la rete internet, allo stesso
modo si possono condurre determinate indagini stando seduti dietro un computer
in rete.
In
internet, per esempio, trovi siti
che ti forniscono in scala la mappa della tua città. Puoi trovare la
cartografia, che ti consente di raggiungere il palazzo della persona che cerchi
e, quindi, di pianificare le perquisizioni mirate o il controllo zonale.
Il servizio telematico dell’Unioncamere consente agli
abbonati di ottenere in tempo reale tutte le informazioni sulle imprese e gli
imprenditori che occorrono: il bilancio, i protesti cambiari, i dati fiscali e
tributari, fallimenti, ecc.
Il sistema Cerved Business Information
ti consente di poter ottenere in tempo reale le informazioni su un’impresa, in
termini di solvibilità ed affidabilità.
Questi sono semplici esempi che evidenziano bene come la tecnologia
è sempre più invasiva e seducente. L’ingegnere Leonardo Serni, che insegna ai
nostri Seminari di Scienze criminali a Calenzano (FI), conversando con
me, a riguardo afferma: «E' comodo ricevere puntualmente bollette precise,
però allora sei schedato all'ENEL, all'acquedotto e all'azienda del gas. Ma può
essere di conforto il fatto che un'integrazione di tutte queste fonti
d’informazione non possa prescindere dal concetto di "significato": i vari
archivio-dati contengono oceani d’informazioni... il che è come affermare che
non contengono alcuna informazione immediatamente disponibile. Bisogna che ci
sia qualcosa che, a quel mare d’informazione, dia un "significato", e decida
cosa è rilevante, e cosa no. Per definizione quel qualcosa non può essere che
una mente umana».
Attribuire il significato ad un significante è compito della semantica,
quindi dall’ingegneria informatica ci spostiamo alle scienze umane. Allora
occorre dire che, se da una parte queste tecnologie risolvono dei problemi,
automaticamente ne aprono degli altri. Le tecnologie, come il linguaggio, non
sono mai neutre. Da una parte, consentono di catturare il farabutto o di far
pervenire la bolletta puntuale, grazie a delle schedature dei cittadini,
dall’altra, però si sacrifica
un pezzo di libertà e di rapporti umani. L’investigatore superdotato, quasi
bionico, rischia di subire il fascino della comodità tecnologica ed anziché ragionare per
problemi, sfruttando la propria intelligenza, rischia di abituarsi a pensare in
termini sommari, di statistica o in modo approssimativo.
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